Sul 15 ottobre e oltre

The Day after. Appunti di viaggio

Riflessioni del Tijuana project - Pisa

22 / 10 / 2011

Roma 15 ottobre 2011Pensiamo che prendere parola sulla giornata dell'indignazione italiana debba derivare da una riflessione accurata, lucida, in modo da poter analizzare i suoi effetti e i dati che ci ha lasciato. Per questo abbiamo preferito attendere, far passare del tempo necessario affinchè la nostra valutazione potesse essere il più puntuale ( se è mai possibile poterlo fare) possibile.

Il 15 ottobre, certo, è stato immaginato e costruito a lungo, ricco tanto di incertezze quanto di ambizioni e speranze. Durante le lunghe settimane precedenti ci siamo preparati a vivere la sfida e la tensione dell'anno politico passato messa alla prova: una sfida che parlava di sintesi tra vocazioni maggioritarie e conflitto, democrazia diretta e rappresentanza, e tanto altro. Ambizioni che, lo sapevamo, ci vogliono disposti a incontrare diversità ricche e molteplici, a rinunciare ad alcuni piccoli baluardi identitari per entrare convinti in quello che il 15 ottobre si è dato come un nuovo, grande movimento globale.

Da mesi avevamo individuato un passaggio che ci ha portato in questo percorso: un ciclo di lotte universitarie, di pratiche di piazza, di linguaggi ed esperienze si avviava alla conclusione nell`era dell`Università riformata. Il 15 ottobre suggella in modo drammatico questo punto di non ritorno. Ci impone un nuovo scarto: misurarsi con una realtà ancora diversa.

1.

La rabbia feroce, incontrollata, ci ha riportato dall'uso moltitudinario della forza all'esplosione minoritaria, distruttiva e meramente estetica. Ma il movimento con il suo portato e la sua maturità non può permettersi di arretrare nemmeno di un passo da quel patrimonio, non può concedere nuovo spazio alla dicotomia moralista in manifestanti buoni e cattivi, violenti e non violenti, maggioranze e minoranze.

Partiamo dalla guerriglia di Piazza San Giovanni, che certo ha visto combinarsi quel fenomeno di disagio scomposto a legittima resistenza alla violenza estrema della Polizia. Non è su questo che dobbiamo fermarci.

Non ci convince l`individuazione di un obiettivo politico in quei tumulti, per impedire comizi e colpire sigle, non ci vogliamo fermare al tentativo di narrare un “piano preordinato” di aggressione ad un corteo pacifico. Ci preme piuttosto prendere parola in modo deciso su quello che abbiamo visto e vissuto prima, e che è stato narrato poi.

Pensiamo che il nodo cruciale della questione sia distinguere, sul piano strategico-politico, pratiche in grado di agire il cambiamento da pratiche finalizzate alla produzione del conflitto per il conflitto, pratiche ricompositive da pratiche che lacerano.

In questo senso il focolaio degli scontri di sabato scorso (diversamente dall`autodifesa in piazza S. Giovanni) non rappresenta altro che un minoritario monologo di devastazione. In questo frangente ha dominato un connubio distruttivo tra nichilismo e ribellione, un sentimento autoreferenziale di rabbia, troppo spigolosa per innervare i processi tumultuosi, eccessivamente blanda ed inconsistente per essere autosufficiente; delle pratiche che hanno di fatto messo in pericolo il corteo, negandogli la possibilità di scegliere le forme e i modi con cui dispiegarsi.

Rispetto a tutto ciò si apre una prima sfida: dobbiamo reimpadronirci della narrazione (ora) e vivere da protagonisti (presto) nuove piazze. Dobbiamo rispedire al mittente le utilitarie bruciate, certo. Ma questo è anche il momento di affermare con decisione che ci terrorizza e ci indigna l'autodelazione o denuncia dall`interno del movimento, così come bisogna ribadire con forza che il movimento non è ontologicamente pacifico o pacificato come vorrebbe Repubblica, bensì sa applicare le pratiche più radicali e forti a seconda del contesto storico che gli si presenta. Continueremo a praticare il conflitto come abbiamo fatto in passato, con gioia e ambizioni ben più alte della mera contemplazione di colonne di fumo sopra Roma.

2.

A differenza delle forme di conflitto che auspichiamo, la rabbia fuori controllo non ha prodotto una sedimentazione, tutto si è dato nella sola negazione, impedendo di produrre un processo realmente costituente, poietico, che porta a tessere nuove relazioni e a formare una comunità politica (come è avvenuta il 14 dicembre). La valutazione politica della giornata deve però scontrarsi con il dato che emerge dalla composizione della piazza, la nostra intenzione di incontrare e costruire un percorso con tanti si deve confrontare ora con con la realtà materiale che anima e vive i processi di movimento.

Se è vero che la sola rabbia, così come le sole ambizioni insurrezionali, non ci appartengono, è altrettanto vero che Roma ci impone di problematizzare quei fenomeni, chiedendoci in particolare se alcuni soggetti non vadano riconsiderati come parte di un movimento, più che etichettati come anomalie vestite di nero.

Non intendiamo qui far riferimento all`area con pretese avanguardistiche e insurrezionali che abbiamo visto in azione in via Cavour, le cui pratiche e posizioni politiche ci sono quanto mai estranee. Ci teniamo piuttosto a condividere la necessità di un ampliamento di tale orizzonte, che consideri anche le tante soggettività che certo componevano piazza San Giovanni, e che lì non hanno trovato altro che tali insensate fughe in avanti, ben lontane da quello che avevano incontrato il 14 dicembre in Piazza del Popolo.

Crediamo che si debba riconoscere il sintomo dell'esistenza di un substrato sociale e culturale che certo non si riconosce nel sistema dei partiti (da anni incapaci di ibridarsi con i soggetti deboli e non rappresentati), ma che non può essere trascurato nella costruzione di percorsi di movimento, anche quando questi portino ad aperture nei confronti delle istituzioni.

Qualche giorno fa abbiamo assistito alla rappresentazione cruda della devastazione prodotta dalla violenza della crisi sulle nostre vite, dell'efficacia agghiacciante dei dispositivi che mettono in scena un conflitto tra soggetti deboli e non rappresentati: chi – dannosamente – dà sfogo selvaggio alla frustrazione che la precarietà e la marginalizzazione producono e chi sfila a difendere i beni comuni, i diritti del lavoro, la formazione.

Per eludere questo meccanismo dobbiamo guardare a ciò che piazza San Giovanni ci dice: l'elaborazione di risposte dal basso – la costruzione di alternativa - deve rimettere al centro di una autocritica organica e profonda l'elaborazione di risposte politiche reali alla rabbia.

I riots, le accampate, i Book Bloc, le fiamme, sono o non sono esplosioni, di un comune disagio? Se individuavamo un filo rosso tra Londra, Madrid, Tunisi, Atene, dobbiamo affrontare ora la complessità delle loro differenze- che abbiamo visto a confronto a Roma- e individuarne analogie e potenzialità per comporre un quadro organico, critico, propositivo.

3.

L'organizzazione della giornata del 15 ha forse perso il controllo di tale complessità, producendo un momento che nei migliori auspici avrebbe dovuto coincidere con una “sfilata”.

Siamo consapevoli di pronunciarci in merito con la parzialità di soggetto universitario, cresciuto in un ciclo che parte dall`Onda e che ha prodotto in anni di lotte una soggettivazione e una determinazione che abbiamo più volte valutato come eccezionali, e che sicuramente non è allo stesso livello di tutte le altre categorie sociali. Eppure in questi pochi giorni abbiamo imparato che le valutazioni che qui condividiamo sono quelle di tanti studenti e precari che erano in piazza con noi.

Lo spezzone universitario che abbiamo attraversato a Roma non rispondeva alle aspettative e ai desideri di chi è sceso in piazza negli anni scorsi, nè si configurava all'altezza delle potenzialità di conflitto e consenso del movimento tutto. L`enfasi, nei giorni successivi, sulla presenza di una stragrande maggioranza pacifica e pacificata ci sembra in controtendenza rispetto alle vocazioni viste fino all'estate, e, a nostro avviso, alla materialità del corteo romano. Certo, lo abbiamo detto, la nuova sfida è più ambiziosa, più larga, e dunque più complessa. Non ci interessa quindi, se non in forma di genuina autocritica, approfondire oltre. Preferiamo rilanciare la necessità di reinserirci con decisione e con coraggio nella linea che unisce Piazza del Popolo ai referendum, che ha dimostrato che l'essere maggioritari non è un miraggio, ma è una caratteristica che è già stata costruita. Su questi nodi, forti del nostro percorso, crediamo di dover ritrovare la determinazione di mettere alla prova e trascinare i nostri interlocutori politici e chi riempie con noi le piazze: la radicalità delle istanze e delle pratiche con il consenso, individuando in particolare obiettivi strategici e politici, in contesti pur complessi come il 15 Ottobre, che esprimano forza, unità, indignazione e spazzino via ogni presenza minoritaria, scomposta e rumorosa.

A prescindere dalle forme, in effetti, Roma ci consegna un dato di partecipazione entusiasmante, che testimonia l'esistenza di un mosaico di soggettività all'interno del nostro paese, che nel loro insieme ci riempiono ancora di aspettative. Ad Atene si poteva leggere “In un mondo per pochi non c'è posto per nessuno!”. Il 15 ottobre ha anche dimostrato che la voglia di cambiare il mondo e di conquistarsi il proprio spazio è davvero grande!